lunedì 30 settembre 2013

#ricoverata #Nadia delle #pussyriot

Ricoverata Nadia, la Pussy Riot in sciopero della fame.

Nadezhda Tolokonnikova, incarcerata per l'azione delle Pussy Riot nella Cattedrale di Mosca, ieri è stata trasferita all'ospedale nel centro detentivo dove è rinchiusa. La giovane ha iniziato da sette giorni uno sciopero della fame per protestare contro le dure condizioni di detenzione e le minacce che ha subito in carcere. Il marito della ragazza, secondo quanto ha riferito Interfax ha commentato lo spostamento come un fatto positivo. Ha inoltre diffuso una lettera in cui la moglie accusa l’amministrazione della colonia penale di averle sottratto l’acqua potabile dopo l’inizio dello sciopero della fame. La donna ha fatto anche sapere di essere stata messa in una cella gelata, ma le sue dichiarazioni sono state smentite dalla direzione. Intanto l'avvocato della donna non ha potuto fargli visita giovedì scorso. Lo sciopero della fame ha svelato la realtà durissima dei centri detentivi, come quello in cui sono rinchiuse le Pussy Riot. in cui le detenute lavorano e vivono in condizioni durissime, che richiamano alla mente i gulag. La situazione generale delle pesanti condizioni detentive sotto il governo Putin è confermato anche da altre fonti. Diverse agenzie di informazione riportano il fatto che in una colonia penale vicino a quella dove è rinchiusa Nadezhda, almeno trenta detenuti rifiutano il cibo da vari giorni, denunciando soprusi da parte dell’amministrazione del carcere. La notizia è stata resa nota da Gazeta.ru, che riporta le testimonianze di parenti confermate anche dal coordinatore del progetto Gulagu.net, Mikhail Senkevic, secondo cui nella prigione maschile Ik-14 “già da parecchi giorni non mangiano”

#Nodiscarica a Falcognana (Roma) nessun dorma!

#NoDiscarica, a Falcognana nessun dorma.
«Questa si chiama legittima difesa», scrivono quelli dei comitati cittadini No Discarica. Sono diverse centinaia anche questa notte. E non hanno intenzione di mollare. Da diverse ore attendono davanti ai cancelli della discarica di Falcognana per ribadire la loro contrarietà all'implemento dell'impianto. Alcuni di loro sono arrivati da lontano e presidieranno il territorio per tutta la notte. Dalle notizie circolate nelle ultime ore, sembra che abbiano vinto la prima battaglia, scongiurando per il momento il rischio del conferimento dei rifiuti nell'impianto del Divino Amore. Il condizionale è d'obbligo in questi casi, ma secondo quanto si mormora negli ambienti dei ministeri interessati - prima di tutto quello dell'ambiente - i rifiuti da domani dovrebbero viaggiare verso il nord del paese. Tecnicamente mancano alcuni passaggi fondamentali perché il sito di Falcognana prenda a funzionare in sostituzione di Malagrotta. Innanzitutto non c'è ancora il parere del Mibac (Ministero dei beni e delle attività culturali) per quanto riguarda il vincolo paesistico della zona: quell'area, infatti, ha un altissimo valore culturale per via dei numerosi manufatti antichi. Mancano anche le certificazioni antimafia. E soprattutto non è ancora arrivata la firma del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando sul decreto che deve dare il via ai lavori della discarica. Ma nelle condizioni politiche attuali sembra difficile possa arrivare a breve.

#riflessioni e #critiche sulla #manifestazione del #12ottobre

Sulla modifica dell’articolo 138 della Costituzione si è aperto un gran dibattito e si annunciano mobilitazioni e schieramenti anche inediti per difenderne l’attuale scrittura, come quella convocata per il 12 ottobre. Da profani quale siamo proviamo a ragionare anche noi sulla nostra Costituzione, o meglio, su quello che ne è rimasto e quindi su cosa ci si chiede di difendere. La prima cosa che salta agli occhi è che buona parte dei dettati costituzionali in materia di diritti e doveri dei cittadini Italiani è oggi poco più che enunciazione e che la sua realizzazione interessa a ben pochi. Basta leggere con un po’ di attenzione gli articoli 3 e 36 per averne un esempio eclatante: Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese Art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. Ebbene non un postulato di quegli articoli è oggi realizzato, anzi nella vita di tutti i giorni, negli atti che i Governi propongono e il Parlamento approva, ma soprattutto nella “costituzione materiale” cioè nella vita di tutti i giorni, sono contenuti elementi che vanno in direzione del tutto contraria. Pochi hanno una retribuzione degna di tale nome, l’intensità della produzione ei tempi di lavoro vanno molto al di la delle previsioni legislative, il ricatto delle aziende sui lavoratori, soprattutto i precari, rende pressoché impossibile fruire di riposo certo, come ben evidenziano le belle e sacrosante mobilitazioni nel commercio contro il lavoro domenicale e festivo obbligatorio. Anche l’articolo 39 sulla libertà sindacale attende da sempre di trovare attuazione e ciò ha consentito di produrre veri e propri mostri giuridici, consentendo a Cgil, Cisl Uil e Confindustria di arrivare a sostituirsi al legislatore e di definire loro, e per loro, i criteri di applicazione di questo articolo realizzando una “conventio ad excludendum” nei confronti di chiunque cerchi di affermare il pluralismo sindacale e regole democratiche di rappresentanza dei lavoratori. Se poi andiamo ad analizzare le più recenti modifiche costituzionali, assunte in ossequio agli interessi del capitale e ai diktat europei, troviamo che la riforma del titolo V della Costituzione ha completamente rovesciato il concetto di sussidiarietà voluto dai Costituenti: non si prevede più che il “privato” possa intervenire laddove il “pubblico” non sia interessato o non arrivi a fornire servizi ai cittadini bensì l’esatto contrario: il “pubblico” può intervenire solo laddove il “privato” non manifesti interesse ad intervenire. In poche parole hanno costituzionalizzato l’assunto che i gioielli di famiglia vanno ai privati e al pubblico rimane ciò che non è conveniente gestire per il privato. Tutto ciò è avvenuto con la condivisione pressoché di tutto il Parlamento dell’epoca. Per ultimo la recentissima introduzione del “pareggio di bilancio” nella nostra Costituzione ha prodotto l’impossibilità per il nostro Paese di definire le proprie scelte economiche e ha definitivamente ceduto un pezzo consistente della nostra sovranità nazionale in campo economico alla BCE, all’UE e al FMI. Sarebbe quindi opportuno, prima di chiamare alla mobilitazione in difesa della Costituzione, avviare una profonda riflessione sulla nostra attuale Costituzione, non sui suoi principi, ma su quanta parte se ne è realizzata, quanto è stata stravolta, se risponda ancora – se mai vi abbia risposto, visto il compromesso di cui è figlia – alle esigenze di una democrazia vera e compiuta. A meno che la mobilitazione a cui si chiama non abbia obbiettivi diversi e certamente meno nobili di quelli dichiarati. A vedere i soggetti, o almeno una parte dei soggetti che l’hanno proclamata, il dubbio è lecito

#1ottobre #aumento #Iva al 22% #stangata di 349 #euro annue a famiglia

E da domani scatta una raffica di aumenti in tutti i settori. E’ l’effetto dell’aumento dell’Iva che, appunto da domani, passa dal 21 al 22%. Una stangata, denuncia il Codacons, che arriverà a costare fino a 349 euro a famiglia su base annua, ma che potrebbe avere ricadute ben più ampie per le tasche degli italiani, se si tiene conto degli arrotondamenti dei listini e dell’aumento dei prezzi dei prodotti trasportati. «Una lunga serie di beni subirà un incremento dei listini con conseguenze pesantissime sui consumi – ha affermato il presidente Carlo Rienzi – In base alle nostre stime, per effetto della maggiore Iva, gli acquisti delle famiglie registreranno una forte contrazione che potrà raggiungere quota -3% su base annua. L’incremento dell’Iva – prosegue – produrrà inoltre una vera e propria ecatombe nel settore del commercio, con ricadute enormi sul fronte occupazionale e sullo stato economico del nostro paese». Perché c’è l’effetto diretto, ma anche quello indiretto: il prezzo raccomandato della benzina, infatti, salirà di circa 1,5 cent euro/litro, quello del diesel di 1,4 ed il Gpl di 0,7 cent. Anche se l’impatto sui prezzi praticati non dovrebbe essere immediato ma spalmarsi lungo la settimana in funzione della fisiologica rotazione delle scorte. E, per paradosso, è quasi un vantaggio per i consumatori visto che la bozza del dl che avrebbe dovuto essere approvato dal Cdm di venerdì prima del precipitare della crisi prevedeva tra l’altro, a copertura del rinvio dell’aumento dell’Iva, un rincaro delle accise sui carburanti di 2 cent al litro per tutto il 2013 e poi di 2,5 fino al 15 febbraio 2015.

#inchiesta #Coop #Polo #piacentino

Ora la gente può credere che siamo solo operai impegnati a portare a casa un pezzo di pane; gente normale, non delinquenti”. A sfogarsi (video) è uno dei 695 soci lavoratori delle tre cooperative, attive nel polo logistico piacentino, i cui amministratori sono stati denunciati dalla fiamme gialle nei giorni scorsi dopo una complessa inchiesta iniziata oltre due anni fa. Lui, insieme a tanti altri migranti e italiani, è stato protagonista della lotta dei facchini, condotta dal Si.Cobas, che nei mesi scorsi ha messo il dito nella piaga della “concorrenza al ribasso”, se non del vero e proprio sfruttamento, dietro i grandi marchi della distribuzione, t ra cui Ikea. E' stata una lotta molto dura con decine di cariche della polizia, facchini in ospedale, denunce, fogli di via. Insomma, il "meglio" della repressione contro chi osa alzare la testa di fronte all'ingiustizia. Una inchiesta con "grandi numeri" Oggi, tre cooperative sono state formalmente accusate dalla Guardia di Finanza di avere occultato al fisco 17,7 milioni di euro e evaso 6,9 milioni di euro “Abbiamo fatto tanti sacrifici, così come le nostre famiglie; siamo soddisfatti perché finalmente i cittadini sanno che tutto ciò che dicevamo era vero” spiega ancora il facchino, ascoltato dalle forze dell’ordine, così come altri 900 lavoratori, nel corso delle indagini. "Emerge oggi con elementi di certezza ciò che abbiamo denunciato più volte in questi anni, sostenendo le lotte dei lavoratori del polo logistico piacentino”, dichiarano Nando Mainardi - segretario Prc Emilia-Romagna, e David Santi - segretario Prc Federazione di Piacenza e Cesare Maggi - segretario Prc Circolo di Piacenza, commentano l'indagine condotta dalle fiamme gialle piacentine. Tra Piacenza e Ferrara Un altro giro di coop fasulle è stata individuata, sempre in questi giorni, nel ferrarese: manodopera reclutata senza regole, normative contrattuali non rispettate, addirittura impiegati ignari del loro datore di lavoro. L’inchiesta della Finanza per frode fiscale ha portato a 13 denunce e numerosi sequestri. All’indagine giudiziaria si è affiancata infatti quella della Direzione territoriale del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail, e che ha portato a scoperchiare una realtà di illegalità e abusi anche in materia di lavoro da parte dei due Consorzi coinvolti nell’inchiesta, entrambi con sede nel ferrarese, e le nove cooperative nel settore dei servizi ad essi collegate. I numeri parlano da soli: quasi quattromila (3983) le violazioni riscontrate e 3643 le posizioni lavorative irregolari rilevate dagli ispettori di cui 1726 riguardano la somministrazione fraudolenta di lavoro, ovvero effettuata con lo specifico obiettivo di eludere norme di legge o del contratto collettivo. Irregolarità diffuse che hanno sottratto agli addetti, hanno calcolato gli ispettori, crediti patrimoniali per 1 milione e 369mila euro per i quali sono state notificate 2.468 diffide accertative, a cui aggiungere 4 milioni e 570mila euro di contributi evasi. Il conto finale per i trasgressori è stato di 863.616 euro di sanzioni amministrative e 583.465 relative a irregolarità di natura penale.

#Cgil #Cisl #Uil si mobilitano per il #governo dell' #austerità e #precarietà

Cgil Cisl Uil si mobilitano ... per il governo

Con un comunicato unitario, ma questa volta senza la firma della Confindustria, CGIL CISL UIL intervengono nella crisi politica per chiedere un vero governo. Il documento confederale è soltanto uno stanco spot a favore del governo Letta o di chiunque gli succeda. Le richieste sindacali su tasse e lavoro, che dovrebbero essere la ragione del documento, sono così generiche che le potrebbe sottoscrivere anche Brunetta, e sicuramente saranno fatte proprie dal neo moderato Sacconi. Di fronte alla crisi drammatica e alla svendita di ciò che resta della struttura produttiva la richiesta poderosa è quella di politiche industriali. Insomma le solite chiacchiere senza capo ne coda che servono a dare una veste sindacale alla sola richiesta chiara, quella di una nuova legge elettorale. Francamente Angeletti Bonanni e Camusso sarebbero stati più efficaci se, senza inutili giri di parole, avessero dichiarata di condividere totalmente le posizioni del loro passato collega Guglielmo Epifani. E su questo nulla si dovrebbero mobilitare i lavoratori e i pensionati il prossimo fine settimana...Ma non scherziamo. CGIL CISL UIL titolano la loro inutile presa di posizione con la richiesta di un vero governo. Lavoratori, disoccupati, pensionati avrebbero bisogno di veri grandi sindacati, che li difendessero davvero nel massacro sociale, contro l'Europa della banche, la sua austerità, i suoi governi. Invece i gruppi dirigenti di Cgil CISL UIL sono totalmente passivi o complici rispetto alle controriforme delle pensioni, della sanità, alla precarizzazione di massa, alla supersfruttamento di chi trova ancora da lavorare. E ora chiedono a Letta e a Napolitano un governo vero...Perché quelli che ci hanno portato a questo disastro erano finti? Perché non si sapeva che il governo delle larghe intese politiche e sindacali aveva come suo pilastro reggente un notissimo pregiudicato? La triste passività di questo comunicato confederale rende ancora più importante la scadenza di lotta dei prossimi 18 e 19 ottobre In quei giorni ci saranno manifestazioni vere, per dire un vero no a quella politica dell'austerità e del massacro sociale sulla quale PDL e PD e i loro governi son sempre andati veramente d'accordo.

#Campania #occupato #impianto #Stir

S.M. Capua Vetere. I lavoratori occupano l'impianto della Stir.

Dopo le proteste nei giorni scorsi a Napoli, Acerra ed a Caserta è ripresa la mobilitazione dei lavoratori dei Consorzi di Bacino. Alcune decine di lavoratori del Consorzio Unico di bacino delle province di Napoli e Caserta (Cub) hanno occupato l'impianto Stir di Santa Maria Capua Vetere. Sono stati bloccati anche i tir carichi di rifiuti indifferenziati provenienti dal Casertano. La manifestazione per protestare contro il mancato pagamento di otto mensilità arretrate e per rivendicare garanzie sul proprio futuro. Due lavoratori sono saliti su un scala anti-incendio e minacciano di gettarsi se non avranno risposte. Sul posto la polizia e i carabinieri. Da oltre un mese il Consorzio, soggetto pubblico che si occupa di gestione del ciclo integrato dei rifiuti, non serve più alcun comune del Casertano perchè tutte le amministrazioni locali hanno affidato il servizio di raccolta ad aziende private. Degli oltre 1000 dipendenti, circa 300, quasi tutti impiegati nel settore amministrativo, sono rimasti esclusi dai nuovi affidamenti. Attualmente la gestione del Cub è affidata al liquidatore Lorenzo Di Domenico, mentre per la sola articolazione casertana il commissario è Gaetano Farina Briamonte.

#commissioneuropea vuole #aumentare le ore di #lavoro del #trasporto #aereo

La Commissione Europea vuole aumentare l'orario di lavoro nel trasporto aereo.
Con gli aerei dell'Alitalia che ormai atterrano senza carrelli e con lavoratrici e lavoratrici delle compagnie aeree - a low e ad hig cost - sull'orlo di una crisi di nervi, il parlamento Europeo oggi voterà su una proposta della Commissione Ue che prevede un aumento di carichi di lavoro per il personale navigante dell’Aviazione Civile. Si tratta di innalzare gli attuali limiti di servizio. Fino a 22 ore di veglia prima di compiere un atterraggio. Da 13 a 14 ore consecutive di servizio. Fino a 11 ore di volo notturno. Un aumento che causerebbe chiaramente un eccesso di fatica operazionale. Se questa proposta dovesse essere accolta le ripercussioni sull’attività del personale navigante sarebbero pesantissime. E’ impensabile aumentare gli attuali limiti fino a 22 ore consecutive di servizio in una condizione oggettiva di stress psicofisico e con un ruolo fondamentale per la tutela e sicurezza dei passeggeri. Queste regole sono evidentemente dettate dagli interessi delle compagnie aeree, ma oltre ai rischi oggettivi per la sicurezza del personale e dei milioni di passeggeri trasportati, l’aumento di attività, andrebbe ad aggravare una situazione di contrazione dell’occupazione.
La CUB e la USB sostengono la mozione di rigetto della proposta di revisione della regolamentazione EASA oggi all’ordine del giorno. Anche per queste ragioni la CUB e la USB del Trasporto Aereo aderisce allo sciopero generale del 18 ottobre, contro le logiche del profitto, per la tutela del lavoro e della sicurezza.

#fermiamocixfermarli

#Intesasanpaolo #Cucchiani 7 #milioni di #buonuscita

“ Uscita lampo di Enrico Cucchiani dal vertice di Intesa Sanpaolo. Nemmeno due anni di sua gestione e l’ex numero uno di Allianz è stato accompagnato alla porta della banca. Una parabola che si è consumata in fretta e con un’accelerazione nelle battute finali, durata soltanto cinque giorni da quando sono uscite le prime indiscrezioni su diversi siti, riprese e ampliate poi anche dalFinancial Times. Le previsioni indicavano che la partita si sarebbe chiusa martedì con le riunioni dei consigli (sorveglianza e gestione) già convocati. Ma i vertici capitanati dal presidente Giovanni Bazolihanno capito che bisognava fare in fretta, anche perché le incertezze sulla guida della banca sono costati cari in Borsa, dove il gruppo ha bruciato 2 miliardi di capitalizzazione in poche sedute in un momento difficile per il settore, complicato dalla crisi politica. E così la scelta di cambiare il vertice, legata soprattutto alle tensioni sorte all’interno degli organi di comando, e che peraltro dovrebbe portare nelle tasche di Cucchiani circa 7 milioni di euro tra stipendi mancati e buonuscita, è stata varata in tempi lampo. L’ormai ex consigliere delegato, tornato sabato da New York, ha incontrato nel pomeriggio di domenica Bazoli e Gian Maria Gros-Pietro (presidente del consiglio di gestione) per un chiarimento e per la consegna della lettera di dimissioni. A seguire, i consigli si sono riuniti in seduta straordinaria per prendere atto del passo indietro e nominare il nuovo consigliere delegato. Scelta che dovrebbe ricadere nella persona di Carlo Messina, attuale direttore generale vicario e numero uno della rete di Intesa Sanpaolo, nota all’interno del gruppo col nome di Banca dei territori. Un manager che ha maturato la sua esperienza a Bnl e al Banco Ambrosiano, prima di arrivare a Intesa, nella quale dal 2008 ricopre anche il ruolo di direttore finanziario. E’ stato smentito da più parti, invece, un possibile ritorno di Corrado Passera, che pagherebbe gli insuccessi proprio dell’operazione Telecom, ma anche quella di Alitalia, che in Intesa non sono state dimenticate e peseranno sui bilanci dei prossimi mesi. Cucchiani è accompagnato alla porta da Bazoli prima che esploda la bomba dei prestiti senza garanzia all’amico Romain Zaleski. Intesa, negli anni del boom finanziario, ha prestato 1,8 miliardi al finanziere franco-polacco per giocare in Borsa, di cui una cifra tra 800 milioni e un miliardo senza nessuna garanzia. Soldi ormai pressoché persi, tanto che nell’ultima semestrale Intesa ha passato 800 milioni nella colonna degli “incagli” che sono l’anticamere dalla perdita secca. Pare che il manager con il passare dei mesi avesse creato parecchi malumori interni alla banca, e non solo nei rapporti con il top management. Tensioni interne, che poi hanno trovato un nuovo acme nelle settimane scorse quando Cucchiani al forum Ambrosetti venerdì 6 settembre ha dichiarato: “Zaleski è stato finanziato non soltanto da noi ma anche da altre banche. Io nel 2008 non ero neanche in Italia ma il punto fondamentale è quello di assicurarsi il miglior recupero di tutte le posizioni con rigore e sano pragmatismo“. E ha aggiunto: “Certamente andiamo avanti e ragionevolmente troveremo un accordo, una soluzione ragionevole. Per chi fa il mio mestiere l’importante è andare avanti e non giudicare il passato“. Proprio l’assenza di Cucchiani lunedì scorso, mentre si decidevano i destini di Telecom attraverso il riassetto di Telco favore di Telefonica, contrapposta all’attivismo di Bazoli, avevano accelerato e dato fiato ai rumors sull’uscita di scena del manager. Voltata la pagina su Cucchiani, Intesa avrà nuove importanti decisioni da prendere. In primis quella sulla governance. Tema che potrebbe essere già affrontato domani dai presidenti delle fondazioni azioniste del gruppo, che dovrebbero incontrarsi in giornata. Dopo diverse pressioni della Banca d’Italia, fatte proprie dalla Compagnia di San Paolo, primo azionista di Cà de Sass, i tempi sembrerebbero maturi per tornare alla governance tradizionale, in sostituzione del sistema duale nato in seguito alla fusione sull’asse Milano-Torino.

#stop #omofobia #pride a #Belgrado

"Esiste il grave pericolo che si possa giungere al disturbo della quiete pubblica, col rischio per la sicurezza della vita dei cittadini e col rischio di distruzione degli immobili, per questo motivo senza alcuna connotazione politica è stata presa la decisione unanime di vietare tutti i raduni e incontri fissati per domani”.

Con queste parole il premier serbo Ivica Dačić, la sera del 27 settembre ha spiegato il divieto del Gay Pride di Belgrado, fissato per la mattina seguente. Alcuni gruppi di ultradestra avevano annunciato la loro contromanifestazione nello stesso momento e nelle vicinanze del luogo dove era previsto lo svolgimento del Pride. Dopo che è stata resa nota l’interdizione della manifestazione, i gruppi LGBT, gli attivisti e gli organizzatori del Pride sono usciti in strada per protestare, sventolando uno striscione con scritto “Questo è il Pride” e urlando “Il Pride c’è”, “Vittoria”. Questo improvvisato Pride notturno è stato organizzato tramite messaggi SMS, come reazione al divieto di manifestare arrivato a sole 15 ore dal momento fissato per lo svolgimento della Parata, nonostante la richiesta per ottenere il via libera alla manifestazione fosse stata presentata alla polizia quasi un anno fa (nell’ottobre 2012). Il Gay Pride aveva ottenuto un forte sostegno dalle ambasciate di 16 paesi occidentali, dall’UE, dal Consiglio d’Europa, dalla Missione dell’OSCE. Alla conferenza conclusiva, alla vigilia dell’evento, avevano parlato il capo della delegazione UE Michael Devenport e il ministro svedese per le Questioni europee Birgitta Ohlsson, la quale era arrivata a Belgrado in qualità di relatrice dell’incontro. A seguito del divieto ha parlato anche il commissario per l’Allargamento Štefan Füle, il quale ha interpretato l’interdizione come un’incapacità di garantire il diritto alla libertà di manifestare e di esprimersi, importanti anche nel quadro dell’imminente avvio dei negoziati ufficiali di adesione della Serbia all’UE. Tuttavia, questo esito era in parte prevedibile, perché la storia dei tentativi di organizzare il Pride in Serbia è connotata da tensioni, violenze e dall’indecisione da parte del potere di garantire la sicurezza del suo svolgimento. La triste storia del Belgrade Pride Il primo tentativo del Pride fu nel 2001, circa sei mesi dopo i cambiamenti democratici [la caduta di Milošević fu il 5 ottobre 2000, ndt.], ed è rimasto nella memoria per gli attacchi ai manifestanti e alla polizia da parte di gruppi di tifosi e di membri delle organizzazioni di ultradestra. Un altro tentativo di organizzare il Pride seguì nel 2009, quando nonostante l’evidente sostegno di personalità pubbliche e della comunità internazionale, la polizia adottò una soluzione con cui si suggeriva di spostare la manifestazione fuori dal centro della capitale, a causa del rischio di disordini. Gli organizzatori videro questa decisione come un divieto (così concluse due anni più tardi anche il Tribunale costituzionale) e rinunciarono al Pride. L’unico Pride che furono in grado di organizzare e svolgere accadde nel 2010, ma il suo successo è discutibile perché i circa 600 manifestanti furono scortati da 6000 poliziotti, che si scontrarono con gli hooligan in varie parti del centro di Belgrado durante lo svolgimento della Parata. Quindi il Pride, dove erano presenti i rappresentanti dell’UE, dell’OSCE e del Consiglio d’Europa riuscì, ma solo perché era completamente isolato dalle violenze che causarono oltre 140 feriti. Dopodiché per tre anni consecutivi (2011, 2012 e 2013) per l’impossibilità di garantire la sicurezza della manifestazione si è ripetuto lo stesso scenario del divieto: gli organizzatori del Pride iniziano i preparativi durante l’anno, chiedono incontri con i rappresentanti di governo, ottengono il sostegno dei paesi occidentali, intervengono i gruppi di destra e le tifoserie che minacciano con una contromanifestazione, i media ipotizzano se si terrà o no il Pride, finché alla vigilia della manifestazione piomba il divieto. Quindi, nel più che decennale tentativo di organizzare il Pride il risultato è: un tentativo, un Pride effettuato, quattro divieti da parte dello stato, e due contromanifestazioni violente. Cosa si può fare per cambiare questo andazzo? Il Pride è solo vittima di una società intollerante, del disinteresse dello stato e dei gruppi di estrema destra oppure c’è qualcosa che possono fare gli organizzatori? Si può cambiare il Pride? Di questo, ed altro, si è discusso durante la Settimana dell’Orgoglio (Pride week), che si è svolta dal 21 al 27 settembre e che avrebbe dovuto concludersi con la Parata del 28. Nelle discussioni qualcuno ha detto che il Pride per tre anni consecutivi è stato “consegnato” nelle mani dello stato e della polizia, cioè che è stato lasciato a loro decidere all’ultimo minuto se la manifestazione si sarebbe potuta tenere oppure no. Questo non solo allontana il Pride serbo dall’idea originaria dei Moti di Stonewall del 1969, dove la comunità LGBT senza alcun compromesso si erse contro la repressione, ma introduce anche la questione su cosa si ottiene se la Parata di Belgrado viene protetta da alcune migliaia di poliziotti, quando nel frattempo i politici ritengono l’omosessualità una devianza. Lo ha fatto notare, durante la Settimana dell’Orgoglio, lo scrittore ed editore Dejan Ilić. Anche se la manifestazione si terrà, “chi può ottenere di più è il governo, che potrà mostrarsi come un partner solido e affidabile. Mentre i gruppi che richiedono un miglioramento dei propri diritti non ottengono proprio niente, perché quelli che li definiscono anormali sono gli stessi che garantiscono loro la sicurezza”. In questo senso, la manifestazione di protesta improvvisata il venerdì sera può rappresentare un passo verso la possibilità di sottrarre il Pride allo stato e alla polizia, prendendo quindi in mano la questione come un evento politico. Il Pride finora è sempre stato legato fortemente al sostegno proveniente dall’UE e dagli USA, perché si ritiene che la pressione dall’esterno, in particolare nel contesto del percorso di integrazione europea, possa contribuire allo svolgimento della manifestazione. Tuttavia, questa tattica ha fatto sì che la questione del Pride venisse presentata come l’ennesima richiesta che deve essere adempiuta per l’integrazione nell’UE, cosa che il premier Dačić ha descritto in modo ironico e populista: “Cos’è, adesso devo diventare anche io gay per far sì che tutto sia filo-europeo?”. Ecco quindi che il Pride finisce nella dicotomia tra i diritti umani incarnati dall’Unione europea e i valori tradizionali. Il Pride, che in questa divisione è stato posto dalla parte dell’integrazione UE, viene “accusato” di essere imposto dall’esterno e di essere rivolto contro la tradizione e la famiglia. Motivo che tra gli altri viene ampiamente sfruttato dal gruppo di ultradestra Dveri, il quale organizza una Marcia della famiglia in segno di protesta al Pride. Tuttavia, l’aver posto il Pride in una stretta relazione con il sostegno dell’UE, la distanza dalle critiche e dal pensiero degli attivisti, l’inaugurazione della Settimana dell’Orgoglio in lussuosi hotel a quattro stelle a Belgrado, fa sì che il Pride stesso venga messo in questione anche dall’altra parte dello spettro politico, cioè da iniziative di sinistra. La critica da sinistra Matija Medenica, del gruppo Marks 21, afferma per Osservatorio: “Questo accade nell’ambito di ristrette cerchie di ONG e in un certo senso suffraga una falsa percezione delle persone LGBT, intese come chi è legato all’Occidente e che crea problemi… Ma io credo che al Pride ci siano anche coloro i quali non sostengono i funzionari dell’UE, per cui stiamo provando a trovare persone con cui possiamo dar vita ad un’alternativa politica. Avevamo pensato di fare il nostro intervento al Pride dicendo che la politica delle 4 stelle non descrive necessariamente la comunità LGBT”. Tutto questo porta alla seguente domanda: in che misura il Pride è collegato con gli altri gruppi sociali e con le altre questioni della transizione? Bojana Ivković, del Comitato organizzatore, ha riferito ad Osservatorio che uno degli obiettivi fondamentali del Pride è “di essere ampiamente inclusivo, che quindi in esso vengano incluse anche le persone disabili, le associazione rom, qualunque organizzazione di persone oppresse. Noi speriamo che si crei una base di solidarietà rivolta ai diritti umani, in particolare di quei gruppi che sono discriminati in quanto minoranze”. Però, l’impressione è che il Pride finora non sia stato collegato in modo rilevante con gli altri gruppi i cui diritti sono messi in discussione, siano essi le migliaia di migranti rientrati in Serbia dall’UE dei quali la maggior parte sono rom del Kosovo che non riescono ad ottenere i documenti di identità oppure i quasi 750.000 disoccupati. Uno degli esempi lodevoli fu il sostegno dei rappresentanti del Pride agli studenti che protestavano contro l’aumento delle tasse scolastiche nel 2011. Uno dei possibili modi per svolgere il Pride in futuro sarebbe quindi di assumere una diversa posizione nei confronti dello stato, che sospende il sostegno, e nei confronti dell’UE, che ci si aspetta che quel sostegno lo offra. Questo include anche il riesame dell’idea che l’UE sia la misura esclusiva del progresso e della realizzazione dei diritti, inoltre riconoscere il collegamento del Pride con altri tipi di privazione dei diritti, siano essi i gruppi definiti come minoranze o quel gruppo eterogeneo dei perdenti della transizione.

#Fiom #Cgil la #normalizzazione è completa

L'Assemblea nazionale dei delegati Fiom svoltasi in questo fine settimana a Rimini, secondo Agustin Breda, dirigente nazionale della corrente di Lavoro e Società ha avviato ''un cammino di pacificazione nei rapporti non sempre facili tra la categoria dei metalmeccanici della Cgil e la stessa confederazione''. Il documento presentato in assemblea dalla segreteria di Landini ha incassato un amplissimo consenso - con l'opposizione del solo documento presentato da Sergio Bellavita della 'Rete 28 aprile' che ha ottenuto 37 voti - grazie anche ''alla convergenza delle diverse correnti prima critiche verso la direzione Cgil della Camusso. L'obiettivo, spiega ancora Breda, e' quello di arrivare al prossimo Congresso della Cgil ''senza le contrapposizioni degli ultimi quattro anni''. Le contraddizioni tra Fiom e Cgil si erano manifestate al congresso del maggio 2010, quando Cgil e Fiom si schierarono su due mozioni distinte. Nuovi contrasti - anche se in tono decisamente minore - c'erano stati sull'accordo del 20 giugno 2011, poi oggetto di riavvicinamenti successivi fra Maurizio Landini e Susanna Camusso, gia' nell'autunno di quell'anno. Fino ad arrivare all'intesa del 31 maggio di quest'anno - duramente criticata invece dai sindacati di base - che lo stesso Landini è arrivato a definire ''utile''. Ed è proprio su questo che nel documento approvato si legge un passaggio decisamente irricevibile, quando si scrive che "L’Assemblea ritiene ineludibile e non più rinviabile l’applicazione dell’Accordo interconfederale del 31 maggio 2013, pertanto chiede alla Cgil di garantirne l’esigibilità". E' da queste basi che e' partito il progressivo riavvicinamento fra Fiom e Cgil, contrassegnato anche dalla rimozione delle posizioni diverse assunte a suo tempo nei confronti di Fiat. Il discorso di chiusura di Landini all'assemblea dei delegati, ha visto infatti il segretario Fiom tornare a chiedere a Fim e Uilm ''un incontro per uno sciopero su cose precise e non generiche: sarebbe una prospettiva utile e necessaria''. La normalizzazione della Fiom - dopo i momenti di lotta di tre anni fa - è dunque conclusa e lo è proprio nel momento in cui sarebbe più forte l'esigenza di un sindacato conflittuale sganciato dall'arruolamento della Cgil dentro le larghe intese. Decisamente difficile però sorprendersi di questa amara conclusione.

#Berlusconi #condannato dalle #borse di #mercato

Le borse condannano Berlusconi.

Al di là del chiacchiericcio politico - quel mondo dove "ognuno dice la sua" e nulla si può capire con certezza - c'è sicuramente un altro mondo dove invece le valutazioni si traducono immediatamente in fattI: i mercati. E le reazioni di stamattina dicono il Cavaliere non ha speranze. Inutile addossargli la colpa della caduta pesante di Piazza Affari (-2% subito, all'apertura), perché già Tokyo aveva chiuso con cifre negative simili. Ma in quel caso pesano molto di più fattori globali come l'indice manifatturiero cinese più basso del previsto, il braccio di ferro al Congresso Usa sul bilancio federale (che richia di bloccare tutto il settore pubblico statunitense già nelle prossime ore), i non esaltanti risultati economici interni e un po' anche la crisi politica italiana, che vista da fuori deve sembrare una nave dei folli. Sul rapido impennarsi dello spread, invece, le responsabilità del Caimano sono trasparenti, perché l'affidabilità finanziaria dei titoli di stato dipendono in grande misura anche dall'affidabilità dello Stato in questione. E una nave dei folli non dà grandi garanzie a lungo termine. Ma c'è un dato ancora più solare: il titolo Mediaset crolla del 5%. Segno che la credibilità di quell'azienda quotata in borsa, e che tutti identificano con il Jockerman, è molto più bassa della media del paese. Non è la prima volta che i mercati puniscono duramente Berlusconi e lui è il primo a saperlo. Nel novembre di due anni fa, quando ancora cercava di resistere a Palazzo Chigi nonostante l'Unione Europea gli avesse voltato platealmente le spalle (ricordate i sorrisi di compatimento di Sarkozy e Merkel?), in sole due ore lo spread salì a 575 punti (stamattina si è riavvicinato ai 300). Soprattutto, in quelle due ore, il titolo Mediaset perse il 12%. Berlusconi capì al volo e uscì dal Palazzo con le mani alzate, mentre Mario Monti attendeva già nella hall. Stavolta, è vero, non spazio alle spalle per arretrare. Ma il suo esercito di fedeli si sta sciogliendo come neve al sole. Ci sarà chi lo fa guardando ai sondaggi, chi alle pressioni dei propri poteri di riferimento (il palermitano Alfano deve aver subodorato qualcosa, dopo aver visto che tutti i parlamentari siciliani del Pdl sono già pronti a trasferirsi altrove), che guardando ai listini di borsa. Gli indicatori sono univoci: tutti vanno in picchiata. In quanti accetteranno di restare a bordo fino al momento in cui l'astronave berlusconiana toccherà rovinosamente il suolo?

#Usa si avvicina il #default #tecnico

Usa di nuovo a un passo dal "default tecnico"

La crisi rompe gli schemi più consolidati. Anche nel tempio del capitalismo dei nostri tempi, gli Stati Uniti. Se accade, però, non si può dare la colpa semplicemente “ai politici”, anche se sono questi ultimi – per ruolo “professionale” - a dover dare un nome comprensibile ai problemi e alle contraddizioni che li generano. Prendiamo un tema di cui i giornali non si occupano granché. Gli Stati Uniti si trovano nuovamente sull’orlo del default finanziario. Com'è possibile che lo Stato più potente del mondo corra un rischio simile? Il bilancio per l'anno fiscale 2014 (che inizia domani) non è stato ancora approvato e senza un accordo in extremis da domani scatterà automaticamente la chiusura graduale di molti uffici pubblici dell’amministrazione federale. La data che preoccupa di più è però il 17 ottobre, quando il ministero del Tesoro prevede che la spesa federale quotidiana raggiungerà il “tetto” del debito. Una regola un po' demenziale lì in vigore vuole infatti che la quota di debito pubblico annuale sia prefissata, e che al momento del “superamento” della cifra stabilita occora una decisione del Congresso per alzarla a un nuovo livello. Regola scema che per decenni non aveva creato problemi: democratici e repubblicani, i due partiti che si fingono contrapposti per gestire al meglio la potenza statunitense, hanno sempre rialzato “in automatico” il tetto del debito. Per un buon motivo: la potenza Usa non deve subire indebolimenti, nemmeno temporanei. Da un paio d'anno a questa parte, però, ogni rinnovo diventa occasione per un “braccio di ferro” che lascia sbigottiti gli osservatori. I repubblicani, che sono all'opposizione ma hanno la maggioranza alla Camera, mettono sotto ricatto l'amministrazione Obama (che ha la maggioranza in Senato), chiedendo di rivedere le “riforme” a loro sgradite in cambio di un via libera all'innanzamento del tetto. Senza questo via libera, gli Usa non saranno in grado di prenere soldi in prestito sul mercato per pagare stipendi e gli interessi sul debito, entrando così in “default tecnico”. Per le leggi statunitensi, infatti, se non c'è “copertura” per una serie di spese, non le si effettua. Parliamo dei trasporti pubblici, degli stipendi del pubblico impiego, dell'istruzione, ecc. In pratica, soltanto la polizia, i servizi di sicurezza (in senso lato), i pronto soccorso potrebbero continuare a funzionare. Il resto si ferma. Forse. Obama a sua volta controricatta affermando che, senza questo innalzamento, non solo l’economia americana ma quella mondiale rischiano di venire destabilizzate. La destra minaccia il tracollo delle trattative se non si cancellano i finanziamenti necessari a rendere pienamente operativa la riforma sanitaria voluta Barack Obama, mentre i democratici rimangono per ora con il presidente che ha annunciato di essere contrario ad un accordo che comprometta la sua riforma più importante. Già un anno fa gli Usa si erano trovati nella medesima situazione. Il compromesso trovato allora fu di ricorrere alla continuing appropriations resolution, approvata il 28 settembre 2012, con valore di sei mesi. Ciò evitò che il governo chiudesse i rubinetti il 1 ottobre 2012 e permise di trovare un accordo a marzo 2013 per l’anno fiscale in corso. Si metteranno d'acordo in qualche modo, non c'è nessun dubbio. Ma se il paese dell'imperialismo dominante funziona oggi così male, vuol dire che qualcosa – sotto la spinta della crisi globale che dura da sei anni – si va rompendo. E trasforma “i politici” Usa in qualcosa di più simile al nostro caravanserraglio parlamentare

#beni #confiscati alla #mafia , ne vogliamo parlare?

Beni confiscati, la burocrazia è peggio della mafia.
Dalla confisca alla riassegnazione ci sono timbri, carte, burocrazia tra tribunali e uffici comunali.

L’idea di base è tanto semplice quanto nobile: confiscare i beni conquistati illegalmente dalla criminalità organizzata per restituirli alla collettività. La sua realizzazione, però, non è affatto scontata. C’è un Codice antimafia da rispettare (e da rivedere), un’Agenzia nazionale con i suoi uffici da consultare e la solita cascata di timbri, delibere, pratiche, scartoffie che rimbalzano tra tribunali e uffici comunali. «La faccenda della confisca e del recupero delle proprietà dei mafiosi non è una linea retta, ma un gomitolo», scrivono Ilaria Ramoni e Alessandra Coppola nel libro Per il nostro bene (Chiarelettere). Sottotitolo: “La nuova guerra di liberazione. Viaggio nell’Italia dei beni confiscati”. Con tanto di vademecum finale per seguire il percorso dal sequestro all’assegnazione dei beni. Anche dall’estero. Sono passati più di trent’anni da quando, sull’onda dell’emozione per l’uccisione di Pio La Torre prima e Carlo Alberto dalla Chiesa poi, nel 1982 prese forma la legge Rognoni-La Torre che introdusse nel Codice Penale italiano l’articolo 416 bis, con l’“associazione di tipo mafioso” e la confisca dei beni appartenuti ai mafiosi. Qualche anno dopo, nel 1996, dopo le stragi del ‘92-‘93, la legge 109 del 1996 aggiunse un tassello: il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Facendo vivere una seconda vita a case e terreni che erano stati di boss e padrini. «Cosa più brutta della confisca dei beni non c’è», confessò il boss Francesco Inzerillo ai nipoti. L’obiettivo è colpire i piccioli dei boss, «lasciarli nudi. E mostrarli così alla gente». Perché la lotta alle mafie è soprattutto economica. ❝ Dove c’era la cabina armadio di Francesco «Sandokan» Schiavone, a Casal di Principe, Caserta, c’è l’ufficio di un’associazione per bambini autistici. Dove il piccolo Giuseppe Di Matteo era stato sequestrato, ucciso e sciolto nell’acido, nel Corleonese, c’è un giardino della memoria frequentato da studenti. Dove un narcotrafficante legato alla ‘ndrangheta aveva fatto incidere nel marmo cerchi e iniziali dai misteriosi richiami massonici, in un appartamento di viale Jenner a Milano, si trascina il passo incerto di un anziano ❞ A dicembre 2012 l’Agenzia per i beni confiscati conta 11.238 immobili e 1.708 aziende. Numeri da mettere sotto la lente d’ingrandimento. Così si vedono terreni gravati da ipoteche, ville danneggiate, terreni occupati, appartamenti confiscati solo in parte e indivisibili. E soprattutto imprese, la maggioranza delle quali già avviata alla liquidazione. «Un bene recuperato appieno resta una vicenda straordinaria, che deve tenersi sulle proprie gambe, perché la struttura complessiva da sola non la regge. Le amministrazioni locali di frequente non vogliono o non ne sono capaci. Gli istituti bancari fanno i propri calcoli, spesso in malafede». E l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, nata nel 2010 come “sportello unico”, da sola non basta: non ha risorse né competenze sufficienti, ed è costretta a lavorare sull’onda dell’emergenza più che sulla programmazione. Manca persino un linguaggio comune sul valore dei sequestri. Ogni giorno nei comunicati stampa si leggono le cifre più varie. Né esiste un criterio unico per fare i calcoli. Il libro di Ilaria Ramoni (che di mestiere fa l’avvocato e amministratrice giudiziaria e che per molti anni è stata referente dell’associazione Libera di Milano) e Alessandra Coppola (giornalista del Corriere della sera) è un viaggio nell’Italia confiscata. Tra quello che si è riuscito a riconquistare e quello che invece resta sprecato. Una mappa di storie che non partono dalla Sicilia estrema o dalla Piana di Gioia Tauro, ma dal Piemonte, con l’omicidio del magistrato Bruno Caccia, il 26 giugno del 1983 a Torino. Lì vicino c’è una cascina, a San Sebastiano da Po, che porta il nome del magistrato e quello di sua moglie Carla. Una cascina confiscata alla famiglia di Domenico Belfiore, il “nonno” che da Gioiosa Ionica (Reggio Calabria) negli anni Sessanta aveva portato nel Nord Ovest tutta la famiglia. Con tanto di caprette per produrre il formaggio. Un uomo comune, per i suoi compaesani, che dopo la confisca nel 1998 raccolsero addirittura le firme per un referendum comunale che impedisse l’assegnazione del bene ai «drogati» del Gruppo Abele. I Belfiore vennero sgomberati dalla cascina solo nel 2007. Nove anni dopo. Il giorno in cui le autorità finalmente entrarono in possesso del bene, lo trovarono devastato. Prima di partire, i Belfiore avevano avuto il tempo di portare via le proprie cose e distruggere l’impianto elettrico, i tubi dell’acqua e del riscaldamento, i marmi e il legno. Tutto da ricostruire. Una situazione che si ripeterà spesso in questo viaggio. Perché i tempi tra la confisca e l’assegnazione sono lunghi. Soprattutto se in mezzo c’è un’ipoteca. Nel frattempo mafiosi e parenti continuano a vivere negli appartamenti ormai di proprietà dello Stato. O vanno in rovina, e il lavoro da fare per il riutilizzo raddoppia. Le storie raccontate seguono un percorso a zig-zag: due passi avanti, uno indietro, ancora uno avanti e tre indietro. Un “balletto” che interessa il Paese, scrivono le due autrici, e non solo il Sud o il Nord cosiddetto “infiltrato”. Tra un passaggio e l’altro, tra un timbro e l’altro, ci sono furti, piante che muoiono, erbacce che crescono. Nelle pagine del libro entriamo nel castello mediceo di Raffaele Cutolo, «con le rubinetterie d’oro nei bagni e le batterie in rame nelle cucine», oggi andato semidistrutto. C’è la casa di Tano Badalamenti a Cinisi, con uno dei primi videocitofoni della storia, segno di potere in una terra di scarsa ricchezza. «Ci passava un mondo davanti a quel videocitofono. Politici e tutori dell’ordine, sodali e questuanti», compreso il padre di Peppino Impastato, il ragazzo di Radio Aut torturato e fatto esplodere sulla ferrovia per Trapani dai sicari del boss. Nella lista dei beni confiscati si trova perfino un pezzo di patrimonio dell’Unesco: un ex ristorante nei Sassi di Matera di proprietà di “Ninì Guagliò”, coinvolto in traffici di droga ed estorsioni. E poi ci sono i beni nelle zone sotto assedio: «Ecco, in un paese come Platì, che cosa si può fare di una casa confiscata ai «Castani»? Quale associazione accetterebbe mai di affrontare questa trincea?» ❝ Ci sono luoghi che hanno così visibilmente cambiato pelle che andrebbero studiati e riprodotti, perché trasmettono un messaggio immediato: prima era un luogo chiuso di violenza e soprusi, adesso è una cosa bella, trasparente, aperta. La Casa del Jazz a Roma, per esempio: la villa del cassiere della Banda della Magliana, Enrico Nicoletti, in stagione di investimenti culturali veltroniani, trasformata in un’oasi della musica, con la sala concerti, lo studio di registrazione, la biblioteca, il parco. I campi degli Arena a Isola di Capo Rizzuto, Calabria, che nessuno osava coltivare e che adesso, anche grazie all’intervento di Libera, producono i «finocchi della legalità» ❞ Sono case e non solo, riempite di quegli oggetti simbolo del potere arrogante dei boss. Nei corridoi affrescati, nei passamano in noce, nell’ingresso neoclassico in stile Scarface, nel marmo blu brasiliano, c’è tutta la potenza e la debolezza della criminalità organizzata. Che ostenta così il controllo sui territori. Case di lusso, molte volte, nelle quali i mafiosi vivevano spesso come topi in gabbie dorate. Perché è questa la vita che aspetta ai sodali delle mafie. Per dirla con Peppino Impastato, «una montagna di merda». Che con il riutilizzo sociale dei beni può trasformarsi in concime. E forse l’immagine emblematica del libro è quella di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, che si affaccia dal balcone della casa di Tano Badalamenti, a cento passi dalla sua casa, diventata “Casa Memoria” solo nel 2011. Ma non ci sono solo i recuperi di successo, come quello di Cinisi. Ci sono anche i recuperi a metà. Con il mafioso che resta il vicino della porta accanto. Succede spesso, è quasi la norma. Da una parte i parenti del mafioso-proprietario, di lì la cooperativa, l’associazione o la casa-famiglia che ha preso posto in una porzione del bene, perché il bene è stato confiscato solo in parte. Sulla buca delle lettere il cognome di ‘ndrangheta. Accanto, il nome dell’associazione a cui è stato assegnato il bene. Da una parte il bene occupato, dall’altro la terra liberata. Che è un paradosso, ma anche una vittoria. La mafia sconfitta (a metà) da eserciti di malati, disabili, emigrati, anziani, madri, bambini, disoccupati. È questo il risultato di sequestri e confische che spesso altro non sono che atti burocratici maturati nel chiuso dell’aula di un tribunale, lontani dalla realtà. La villa sull’Appia antica, a Roma, per esempio, confiscata per due terzi a un esponente della Banda della Marranella (erede della Magliana), è indivisibile. La moglie è rimasta ad abitarci. Così, il bene è inutilizzabile e tutte le spese della villa, comprese quelle di gestione straordinaria, sono a carico dell’Agenzia, cioè del contribuente. La strada per la liberazione di questi luoghi è tutta in salita. Ci sono sabotaggi, distruzioni, intimidazioni, oppure intralci burocratici, amministrazioni locali che si mettono contro, adirittura la banca che ha fatto credito al mafioso e adesso non accetta di annullare il debito, e perfino giudici che annotano un’altra particella catastale e sequestrano il bene sbagliato. Come è successo nella villa di Piddu Madonia sul litorale di Santa Croce Camerina, Ragusa, dove la famiglia del boss continuava a trascorrere indisturbata le vacanze. Perché nella misura di prevenzione il bene confiscato per errore era un altro. Per tenere le redini della gestione dei beni confiscati è stata creata nel 2010 un’Agenzia nazionale. Con sede a Reggio Calabria. Una sede simbolica, ma scomoda da raggiungere. Tanto che il consiglio direttivo si riunisce il più delle volte a Roma. Uffici romani, per giunta, per i quali l’agenzia «paga quasi 25.000 euro d’affitto al mese, 295.000 all’anno». Proprio a Roma, che conta un terzo di beni confiscati e vuoti. Ma il personale è poco. E soprattutto, manca personale specializzato. Nel 2007, durante un’audizione in Commissione antimafia, l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi avvertiva: i beni confiscati «andrebbero gestiti in modo da assicurare non solo la loro conversione, ma anche la produzione di un reddito e l’incremento del valore». A partire proprio dal salvataggio delle aziende appartenute ai boss. Su dieci aziende confiscate in Italia, nove non ce la fanno. Al Nord come al Sud, il futuro di un’azienda sottratta alle mafie è sempre uno: la morte. «Il problema è che tutte queste aziende, quando vengono rimesse nel mercato, non hanno più quel potere negativo aggiuntivo, quel superpotere, quegli anabolizzanti che consentivano di sopportare le pressioni del libero mercato», spiega nel libro il dirigente della divisione anticrimine della Questura di Trapani, Giuseppe Linares. Liberate dal laccio mafioso, le imprese si trovano davanti la realtà: «La fila dei creditori che prima, col boss, non osavano presentarsi; le banche che concedevano prestiti con facilità e all’improvviso chiudono le casse; i sindacati che non osavano parlare e adesso portano il conto di tutte le rivendicazioni arretrate». In una situazione così critica, è così scandaloso parlare della vendita dei beni confiscati ai privati? Attualmente, la legge lo consente solo per le aziende. E per gli altri beni i pareri sono discordanti. «In pieno centro a Napoli, ho un piccolo magazzino confiscato all’interno di un ristorante di persone perbene. Il Comune non sa cosa farsene, il ristoratore lo pagherebbe a peso d’oro perché gli serve, ma io non posso vendere al privato e noi teniamo un bene che mi fa statistica e che non ho ancora destinato», ammette Giuseppe Caruso, direttore dell’Agenzia Nazionale. Il rischio è sempre lo stesso: che la mafia si ripresenti sottoforma di un prestanome e acquisti di nuovo il bene. «Certi immobili non hanno tanto valore simbolico, ma vanno potenziati per fini sociali perché la città, la comunità del luogo, si ricordi che ha vinto una battaglia di democrazia», replica don Giacomo Panizza, che con la sua comunità di «gente in carrozzina» ha espugnato un fortino di ‘ndrangheta a Lamezia Terme. Il punto, però, è che spesso queste battaglie si vincono quando è ormai troppo tardi.

#Telecom e #Alitalia fine del #capitalismo di bandiera #italiana?

Perdere Telecom e Alitalia?
Si avvicina la fine del capitalismo di bandiera italiano. Si aprirà una nuova stagione per il paese?

L’acquisto di Telecom Italia da parte della società Telefonica è una buona notizia. Lo è altrettanto la probabile scomparsa di Alitalia, anche se invece che andare ad Air France sarebbe meglio lasciarla fallire. Le due notizie in contemporanea sono ottime perché possono segnare la fine del capitalismo “di bandiera” (cit. da Twitter), quella commistione di interessi privati spacciati come pubblici e di interessi pubblici utilizzati per favorire gli amici privati. Il tutto sotto la foglia di fico dell’“italianità”! Un capitalismo privato senza soldi garantito dagli affidamenti (fatti a nome di tutti noi italiani) dei Governi pro tempore e dei partiti, i veri beneficiari – assieme alle banche – di questi pastrocchi, tremendamente simili a quelli del settore energetico, dominato da aziende controllate dallo Stato che quando serve sono autorizzate a spacciarsi per pubbliche e quando no “devono” potersi comportare come private! Per questo è utile spendere due parole su Telecom e Alitalia, affinché il “senno di poi” possa aiutare nell’analisi del presente e decidere il futuro delle aziende energetiche, tutte incluse, Enel, Eni, Terna, Snam, il conglomerato Cassa Depositi, le ex municipalizzate. Per non ripetere gli stessi errori. Come in tutte le privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità, forniti attraverso una rete in monopolio (perché unica e non replicabile) il vero e unico interesse nazionale è che tale infrastruttura sia completamente separata dagli interessi dei produttori/venditori che devono usarla. L’elettricità, il gas, i servizi di telefonia fissa, ma anche l’acqua, devono poter circolare liberamente sulle proprie autostrade. Questo perché l’altro interesse collettivo sottostante è quello dello sviluppo della massima concorrenza tra produttori/venditori. Adesso molti, colpevoli, si strappano le vesti non tanto perché il servizio telefonico di Telecom finisce ad una società straniera, ma perché vi finisce anche la rete fissa, il fatidico ultimo miglio. Rete che fu lasciata in Telecom per favorire gli amici ed aumentare il valore della cessione. È chiaro che vendere un monopolio ai privati vale di più che vendergli una società di servizi in concorrenza con altri. Fu lo Stato (cioè i governi pro tempore, cioè i partiti che lo componevano) a speculare su un bene costruito con le bollette telefoniche degli italiani. La soluzione sarebbe stata invece molto semplice. Sarebbe bastato togliere la rete all’ex monopolista integrato e procedere a privatizzarli separatamente, ciascuno al giusto valore. Ovviamente con il divieto di possesso di azioni della rete da parte di operatori telefonici: l’ideale per le società delle reti è farne delle public company ad azionariato diffuso. Investimento popolare perché garantito dalle tariffe d’uso decise dalle Autorità indipendenti e di regolazione e promozione del mercato. Si può ancora fare. Lo Stato mantiene un potere sulle infrastrutture energetiche e può esercitarlo, ma non per riportare la rete nella proprietà pubblica. Se l’obiettivo è separare la rete per renderla terza e indipendente dagli operatori (unbundling, in gergo) l’Europa non ha mai avuto niente da ridire e ha sempre autorizzato queste operazioni. La rete separata sia poi venduta e con il ricavato sarà rimborsato il nuovo proprietario di Telecom. Lo stesso errore di non separare la rete prima di iniziare le dismissioni fu fatto anche con la rete dell’alta tensione elettrica, e dallo stesso D’Alema presidente del Consiglio che “autorizzò” la cessione di Telecom. Anche nel caso di Enel lo Stato (stesso discorso: governo, partiti, etc.) imbrogliò gli azionisti, perché a parole disse che voleva aprire il mercato alla concorrenza ma nei fatti vendeva ai privati un monopolio, speculando sul maggior valore che gli analisti attribuivano all’Enel proprietaria della rete dove i suoi concorrenti avrebbero dovuto far passare i propri chilowattora. Nel caso dell’Enel l’errore di lasciargli la proprietà della rete fu pagato dagli italiani con il black out di cui domani (26 settembre) ricorre il decennale, ma che portò però alla definitiva separazione e alla nascita di Terna. Qual è adesso la situazione delle reti dell’energia? Lo scorso anno Snam, che possiede e gestisce la rete nazionale del gas e gli stoccaggi, è stata separata da Eni, sia pure con drammatico e ormai irrecuperabile ritardo, grazie ad una personale iniziativa di Mario Monti. Però, come Enel e Terna, anche Snam è rimasta sotto controllo dello Stato, lo stesso che controlla l’Eni, in pieno conflitto di interesse. In più è ancora l’Eni a controllare i grandi gasdotti che portano all’Italia il gas dell’Africa del Nord. Sono una delle infrastrutture più importanti del Paese e se per una emergenza fosse necessario vendere l’Eni rischiano di passare ad un nuovo padrone. Come nel caso di Telefonica con la rete di telecomunicazione anche nel caso dei gasdotti i nuovi acquirenti (esattamente come i precedenti), potrebbero voler usare l’infrastruttura per restringere il mercato, e far alzare i prezzi. È urgente risolvere questa situazione: tutti i gasdotti interni e internazionali di interesse strategico devono essere concentrati in Snam e anche quest’ultima va privatizzata con azionariato diffuso e neutrale. Ogni potere di influenza dei partiti sulle società energetiche va estirpato alla radice. Lo Stato deve recuperare il suo ruolo di regolatore e controllore. E basta. Un problema analogo e altrettanto urgente riguarda adesso anche la rete di distribuzione dell’elettricità, ancora in mano all’Enel (che attraverso quella rete veicola i chilowattora dei suoi concorrenti e i propri fino dentro le case) e alle ex municipalizzate, monopoli locali come Acea a Roma, A2A a Milano e Brescia, Hera a Bologna, Iren a Torino e Genova e tutte le altre. È qui che i destini della rete di distribuzione dell’elettricità e dei servizi di telecomunicazioni si intersecano, restituendo all’ultimo miglio di Telecom – checché ne dica il Presidente esecutivo Bernabè, che ne deve sminuire l’importanza per giustificare la cessione a Telefonica – una valenza strategica negli scorsi anni appannata dalla diffusione dei servizi wireless. Le cosiddette “reti elettriche intelligenti” saranno tali solo se innervate dai servizi che solo la rete fissa di telecomunicazioni può garantire. Si tratta di gestire con alto automatismo flussi e contro flussi di chilowattora e tutto il “big data” di produzione (sempre più discontinua) e consumi (sempre più frazionati) cui va aggiunta la gestione dei grandi impianti, delle grandi reti e dei sistemi di storage (stoccaggi dell’elettricità). Questo è il futuro di qualità e innovazione tecnologica su cui l’Italia può scommettere e può vincere nel confronto economico mondiale. Simile agli altri anche il caso Alitalia, società privata alla quale il Governo Berlusconi garantì il mantenimento di una posizione dominante sul mercato nazionale (ad esempio la pratica esclusività della tratta Roma-Milano) per garantire ritorno economico alle imprese che parteciparono all’acquisto della compagnia sull’orlo del fallimento. Prodi l’aveva invece promessa ai francesi e Berlusconi, visti i sondaggi, giocò buona parte della campagna elettorale sull’italianità della compagnia. Peccato che la stragrande maggioranza degli italiani, ai quali piaceva la bandiera nazionale sulla coda degli aerei, non avesse mai “goduto” dei disservizi di Alitalia! Sbagliavano sia Prodi che Berlusconi, perché non si chiesero quale fosse il vero interesse degli italiani, ma decisero in base ad altre considerazioni. All’Italia infatti serve avere negli aeroporti le migliori compagnie mondiali in concorrenza tra loro per poter scegliere il meglio e il più economico. E quelli più capaci di portarci beni e turisti. Per questo ciò che conta non è la nazionalità delle compagnie, ma i diritti di utilizzo delle piste, gli “slot”, l’equivalente delle reti di elettricità, gas e tlc nel settore aereo. Per raggiungere l’obiettivo sarebbe bastato mettere all’asta gli slot uno per uno con un limite di possesso, in modo da avere le 4-5 compagnie mondiali migliori al posto dell’Alitalia ormai decotta. Certo, questa scelta implicava lasciar fallire la “compagnia di bandiera”, in realtà una fabbrica di debiti, ma non se ne ebbe il coraggio. Che grande lezione sarebbe stata per tutti i nostri pseudo capitalisti pubblici e privati! Ma anche che opportunità di rilancio per i servizi aerei e per il turismo in Italia. E con pochi problemi anche per l’occupazione perché i nuovi entranti non avrebbero che potuto riassumere gli ex Alitalia, oggi ancora in cassa integrazione. Alcune società elettriche italiane, a causa del crollo della domanda, sono ora in gravi difficoltà. Come fu con l’Alitalia è tutta una gara per tenerle in vita, ovviamente a spese delle famiglie e delle piccole e medie imprese. Alcune centrali sono fuori mercato anche a causa degli incentivi decisi dallo Stato (in questo caso non solo i partiti, anche le banche, che poi sono la stessa cosa) per le rinnovabili. Ebbene, si calcoli il valore di questi standed cost e li si rimborsi. Punto. Meglio un costo adesso, subito, che poi finisce a data certa, piuttosto che continuare a distorcere il mercato tenendo in vita impianti che non potranno più lavorare. Senza pensare alla miriade di altre rivendicazioni e richieste di protezione – il più delle volte infondate – di tutti gli altri! Che poi vincono sempre i più forti: a spese di famiglie e PMI. La scelta di lasciar fallire Lehman Brothers nel settembre del 2008 non simboleggiò la crisi finanziaria mondiale, ma l’uscita da essa. Fu il segno della volontà di ripresa. Chi deve pagare paghi, chi deve chiudere chiuda, e poi si riparta. Il mercato dell’energia è soffocato da sussidi, aiuti e aiutini di ogni tipo. È urgente un segnale forte come fu quel fallimento.

#Capitalismo il #sonno è un impedimento allo #sviluppo ed alla #produzione (non è uno scherzo buona lettura)

Il tardo capitalismo non dorme mai. E pure i lavoratori.
La tesi? Il sonno non è indispensabile all’equilibrio delle persone, ma un ostacolo allo sviluppo
Il sonno è di ostacolo allo sviluppo del capitalismo. È questa la tesi centrale di 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep ( 24/7: il tardo capitalismo e la fine del sonno, Verso Books, 2013), l’ultimo libro di Jonathan Crary, docente di Teoria e Arte Moderna alla Columbia University di New York. Una tesi provocatoria, certamente, ma tutt’altro che inverosimile. Abbiamo già una certa esperienza di come l’alternanza naturale tra il giorno come tempo del lavoro e la notte come tempo del riposo sia ormai per molti poco più di un lontano ricordo. Ne sanno qualcosa i nuovi lavoratori autonomi – dai precari con contratti di collaborazione ai liberi professionisti del “popolo delle partite IVA” – per i quali la retribuzione non è più commisurata alla prestazione offerta durante l’orario di lavoro (antico ricordo dell’era della fabbrica e del lavoro dipendente) ma alla prestazione del servizio concordato o alla consegna del prodotto finale. Con la conseguente estensione della giornata lavorativa senza limiti prestabiliti e senza che vi sia alcun tempo stabile dedicato incondizionatamente al sonno e al riposo. Il tutto – spesso ma paradossalmente – portato ad esempio di una maggior libertà e indipendenza. Si tratta, per Crary, di una caratteristica fondamentale del tardo capitalismo. La rincorsa alla continua crescita della produzione economica e dei consumi, la riduzione di ogni forma di inefficienza e l’aumento del profitto, sono il credo del nostro attuale sistema economico, caratterizzato da un eccesso di indebitamento (sia privato che pubblico), anche questo figlio della necessità di far crescere i consumi. La conseguenza è che il sonno non rappresenta un’attività naturale indispensabile ad un buon equilibrio dell’attività umana, quanto piuttosto un ostacolo allo sviluppo. Il sonno, insomma, non produce, e il tempo naturale del riposo deve perciò essere eroso, eliminato o quantomeno ridotto al minimo. I dati a disposizione sembrano confermare questa tendenza. Dalle otto ore di sonno medie di un americano adulto della scorsa generazione si è passati alle sei e mezza attuali. Una riduzione drastica, se si considera che – sembra impossibile crederlo oggi – all’inizio del secolo scorso la media si aggirava intorno alle dieci ore. Tre ore e mezzo di sonno in meno che diventano tre ore di attività in più in cui diveniamo potenziali produttori o consumatori. Può sembrare poco, ma moltiplicato per il numero di abitanti quelle ore in più di veglia hanno un effetto per nulla trascurabile: come se la popolazione aumentasse del 10 per cento. Quasi ad evidenziare come l’espansione del capitalismo sia prima passata dal boom demografico finito negli anni Ottanta all’esplosione del debito ed in particolare del credito al consumo con il successivo stallo della crescita della popolazione, fino a trasformarsi, dopo la crisi del debito, ad un aumento delle ore di attività in cui le persone sono potenziali consumatori. Si potrebbe certamente obiettare che, in fondo, non vi è nulla di intrinsecamente disdicevole in un sistema che, a ben vedere, favorisce una maggiore duttilità dei ritmi di vita e un maggiore accesso alla possibilità di soddisfare bisogni e necessità. Per Crary, tuttavia, la possibilità di sottrarre tempo al sonno e allo stesso tempo mantenere alta la capacità produttiva non è nient’altro che un’altra illusione del 24/7. Si tratta, da un lato, di un mito che ritorna periodicamente in ambito militare, dove si vagheggiano ricerche volte alla creazione del “soldato perfetto”, capace di mantenere un alto potenziale distruttivo in scenari di guerra senza bisogno di riposo alcuno. Un mito, appunto, perché è al contrario dimostrato come la privazione del sonno provochi danni immediati sulla salute, portando in breve tempo a psicosi e, se protratta, a lesioni neurologiche. Negli esperimenti di laboratorio, i topi sottoposti a veglie forzate muoiono dopo due o tre settimane. Come ammonisce Crary – e il paragone è di indubbio effetto – una procedura di interrogatorio prevista nelle prigioni militari americane (specialmente dopo l’11 settembre) contempla la detenzione per giorni in cubicoli illuminati ad alta intensità con musica ad alto volume, senza la possibilità di sdraiarsi. Una pratica di indubbia efficacia, dal momento che il senso di impotenza che genera in che le è soggetto conduce a una manipolabilità quasi totale. Il che conduce, dall’altro lato, al significato positivo del sonno, che trascende la banale considerazione sulla sua necessità fisiologica. Quando dormiamo siamo anche assenti, incoscienti di ciò che accade intorno a noi; siamo, pertanto, in una condizione di massima vulnerabilità a qualunque potenziale minaccia proveniente dall’esterno. Dormire significa perciò rimettersi alla cura di qualcuno, presuppone la possibilità di potersi affidare agli altri. In breve: il sonno racchiude in sé un senso di comunità. Uno spirito che mal si confà alle dinamiche di profitto e alla logiche competitive caratteristiche del capitalismo 24/7. Il sonno, l’attività più naturale che si possa immaginare, rappresenta perciò non solo un ostacolo, ma anche un potenziale strumento di resistenza a un sistema economico che rivela sempre più spesso il suo volto feroce e disumano.

domenica 29 settembre 2013

#WalterRossi #30settembre #appuntamenti

36 anni fa Walter Rossi, a Roma Alba dorata si chiamava Msi Le iniziative in occasione dell'anniversario dell'omicidio di Walter Rossi, militante di Lotta continua. I killer uscivano da una sede del Msi

Siamo alla fine degli anni '70, decennio caratterizzato da lotte e conquiste sul piano sociale e dei diritti civili, troppo sbrigativamente liquidato e stigmatizzato come "anni di piombo", allorché la strategia neofascista si manifesta nelle sue forme proprie. Nei giorni che precedono il 30 settembre 1977, per ben due volte, i fascisti, a bordo di un'auto, sparano su alcuni ragazzi in diversi punti della nostra città, ferendo tre giovani. Il 30 settembre, un gruppo di fascisti di Balduina e Monteverde, usciti dalla sede del MSI di Viale delle Medaglie d'Oro, scortati da un blindato della polizia che gli fa da scudo, esplodono colpi di arma da fuoco, indisturbati, su un gruppo di giovani intenti a volantinare, per denunciare alla cittadinanza i tentati omicidi dei giorni precedenti. Walter Rossi, 20 anni, giovane studente di Lotta Continua, muore colpito da un proiettile alla nuca. La polizia, presente in forze, carica i compagni che tentano invano di soccorrerlo, consentendo la fuga agli assassini. Dopo anni di indagini e processi, nessuna condanna verrà inflitta ai colpevoli! Verità e giustizia mal si conciliano nella storia di questo paese e le tante stragi impunite, d'altronde, stanno lì a dimostrarlo. Ma con Cristiano Fioravanti, l'assassino di Walter, si arriva al paradosso: concessione di misure premiali che gli consentono una vita comoda a spese della collettività. Walter muore da antifascista, difendendo l'agibilità politica di tutti i democratici della capitale che, in centomila, parteciperanno, accanto al presidente partigiano Sandro Pertini, ai suoi funerali. Da allora fino ad oggi, il ricordo di Walter, così come la pretesa di giustizia per il suo omicidio, non sono mai scemati, ed ogni 30 settembre i suoi compagni ne hanno dato prova, ribadendo, anche negli anni più bui in cui un sindaco fascista ha governato la nostra città, la volontà di non lasciare la memoria di Walter nelle mani di opportunisti e mistificatori. Da questa continuità nasce la volontà di mobilitarsi anche quest'anno, facendo del 30 settembre 2013 una giornata antifascista cittadina che, oltre a ricordare il 36°anniversario dell'omicidio di Walter, - ribadisca l'attualità dell'Antifascismo autentico, quello dei Partigiani, quello sancito dalla nostra Costituzione e troppo spesso svilito nei fatti; quell'Antifascismo che non si presta ad ambigue pacificazioni in nome di una memoria condivisa, perché non ci potrà essere condivisione sino a quando resteranno impuniti i mandanti e gli autori degli omicidi e delle stragi fasciste. - denunci il nuovo sacco di Roma, condotto dalla giunta comunale precedente, insediando ex appartenenti ai Nar, Avanguardia Nazionale e Terza Posizione, nei punti chiave delle società partecipate del Comune, a presidio e spartizione dei fondi destinati a Roma Capitale in commistione, peraltro, con settori della malavita organizzata - obblighi l'Amministrazione Capitolina a soddisfare le aspettative dell'elettorato antifascista romano che ha contribuito in forma determinante alla sua affermazione, emarginando le organizzazioni politiche che si richiamano esplicitamente al nazi-fascismo, togliendo loro gli spazi e i finanziamenti elargiti dall'ex sindaco Gianni Alemanno. - Difenda la nostra Costituzione democratica ed antifascista dai recenti tentativi di annichilirne le fondamenta e svuotarne i contenuti , affinché la si applichi e non la si modifichi. Come Compagne e Compagni di Walter, come Associazioni e Partiti che in questi anni hanno tenuto vive la sua memoria e la ricerca di verità e giustizia, riteniamo necessario promuovere una mobilitazione unitaria, capace di coinvolgere tutte le forze che, nella difesa dei valori della Resistenza e della Democrazia, hanno trovato motivo di esistere dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Invitiamo, pertanto a partecipare i rappresentanti delle Istituzioni: Regione, Roma Capitale, Municipi, i rappresentanti dell'Anpi e delle altre associazioni democratiche e antifasciste. I Resistenti, i Partigiani hanno lasciato un patrimonio di valori che, nell'avvicendamento generazionale, corre il rischio di essere disperso, e che, perciò, tutti gli antifascisti hanno il dovere di raccogliere e diffondere; valori intramontabili di uguaglianza sociale e solidarietà.
Gli appuntamenti della mobilitazione
30 settembre, ore 09,00, cerimonia in Piazza Walter Rossi
30 settembre, ore 17,00, corteo da Piazzale degli Eroi alla lapide che ricorda Walter Rossi

#signoraggio #bancario cos'è e come funziona

Signoraggio bancario: cos’è e come funziona davvero.

Definizione, storia ed esempi di un fenomeno di cui si parla parecchio ma di cui si conosce poco.
Da quando la crisi economica ha colpito duramente il mondo euro-americano, le pagine di economia, sia sul web che su quotidiani, sono passate dall’essere pagine da saltare a piè pari prima dello sport a diventare improvvisamente interessanti. Ma, come spesso accade quando non si comprende una materia complessa, si cerca un bandolo della matassa, una ragione suprema, un principio primo che spieghi tutto, che renda la realtà leggibile come un libro di poche pagine. E la chiave di volta di tutto questo sistema maligno, che arricchisce pochi banchieri e impoverisce il resto del mondo, eccola qua: si chiama signoraggio. Ma il signoraggio non è come le scie chimiche, il signoraggio è una qualcosa che esiste. Innanzitutto il significato. Signoraggio deriva dall’antico termine provenzale senhoratge , a sua volta derivante dal termine seigneur, signore. In economia, per usare la definizione del premio Nobel e editorialista del New York Times Paul Krugman, «è il flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi». Una tassa che si paga quando si usa il denaro. Secondo la Banca d’Italia invece: Per signoraggio viene comunemente inteso l'insieme dei redditi derivanti dall'emissione di moneta. Per le banche centrali, il reddito da signoraggio può essere definito come il flusso di interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote (o, più generalmente, della base monetaria) in circolazione. Per l'Eurosistema, questo reddito è incluso nella definizione di “reddito monetario”, che, secondo l'articolo 32.1 dello statuto del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e della Banca centrale europea (BCE), è “Il reddito ottenuto dalle banche centrali nazionali nell'esercizio delle funzioni di politica monetaria del SEBC”. Questo termine nasce per definire il diritto del signore feudale a coniare moneta e a trattenere un poco del metallo prezioso usato per coniarlo. Insomma, una garanzia ulteriore sul già intrinseco valore del denaro. C’era una (sia pur impercettibile) differenza tra il valore nominale delle monete e quello reale del metallo con il quale erano coniate. Il valore veniva trattenuto dal governo e veniva usato per la spesa pubblica. Il primo regnante ad usarlo in modo netto fu l’imperatore romano Settimio Severo: metà del metallo prezioso viene tolta alle monete, ma il loro valore nominale rimane tale. Il signoraggio continuò anche per tutto il Medioevo e l’epoca moderna, quando gli Stati continuarono a esercitare il diritto di signoraggio anche usando la monetazione in argento o in rame. Con la Conferenza di Bretton Woods nel 1944, si cerca di stabilizzare la situazione internazionale usando il dollaro agganciato all’oro come riferimento di tutte le altre valute. Questo sistema viene abbandonato dal presidente Usa Richard Nixon durante la guerra del Vietnam, nel 1971, in favore dell’attuale sistema della Fiat Currency, che di fatto non è agganciata ad alcun valore reale. E allora, che uso di fa del signoraggio, nello stato attuale? Si usa, e l’Italia lo usò molto negli anni Settanta, quando ci fu molto bisogno di far fronte a una spesa pubblica in crescita e una crescente infedeltà fiscale. E anche la Germania di Weimar, tra il 1921 e il 1923 ne abusò, innescando una spirale iperinflattiva che rese carta straccia le banconote. Fin qui cos’è il signoraggio nella teoria economica. Ma cosa pensano invece i “complottisti”? C’è una data che per loro è decisiva: 27 luglio 1694, anno della fondazione della Banca d’Inghilterra, prima Banca Centrale al mondo, che per la prima volta crea il debito pubblico e fa perdere allo stato la propria “sovranità monetaria”, a tutto vantaggio dei banchieri contro lo Stato e i cittadini. Ci sono almeno quattro gravi imprecisioni in questa asserzione. Primo, La banca centrale del mondo più antica del mondo, intanto, è la Sverige Riksbank, la Banca Centrale svedese, fondata il 17 settembre 1668. Secondo, anche il Banco di San Giorgio di Genova, fondato nel 1407, già svolgeva funzioni da Banca Centrale, pur essendo molto diversa come struttura, e, per quanto i teorici del complotto sostengano fosse pubblica, i capitali che la componevano erano in larga parte privati e gli azionisti ricevevano una rendita del 7% sui loro depositi. In più a volte la Banca svolgeva vere e proprie funzioni di governo nelle colonie genovesi, come in Corsica e in Crimea, molto più di qualsiasi altra banca centrale. Terzo, il debito pubblico c’era già prima. Solo che si chiamava debito della Corona. Il processo di costituzione della Banca avviene anche in un periodo in cui le prerogative reali stavano per essere devolute al Parlamento, quindi normale che anche quelle di natura economica subissero analogo destino. Quarto, le casse dello Stato, che prima di allora si rivolgevano agli orefici e ai finanziatori privati, si rafforzarono notevolmente tanto che l’Inghilterra potè cominciare proprio in quel periodo a diventare una potenza globale. Non basta: nel 1946 la Bank of England viene nazionalizzata dal governo laburista di Clement Attlee. Quindi, assumendo che la teoria sia vera, prima del 1998, quando la banca ricevette da un altro laburista di nuovo la sua indipendenza, sia pur rimanendo di proprietà integralmente pubblica, l’Inghilterra è stata liberata dal signoraggio per ben 52 anni. Ci sono però, anche per i signoraggisti, delle banche o istituzioni cosiddette “buone”. Eccole. Parlamento di Guernsey. Guernsey, così come le altre dipendenze della corona britannica, emette moneta attraverso il proprio parlamento locale. Per i signoraggisti, questa è la prova dell’esistenza della moneta sovrana e di come questa tenga i bilanci a posto senza bisogno di debito o di tassazione. E senza nemmeno il pericolo iperinflattivo. In realtà il tasso di cambio della sterlina di Guernsey è collegato 1 a 1 alla sterlina britannica. Banca del North Dakota. Il piccolo stato del Midwest americano sembra non aver sofferto per niente sin dai tempi della crisi dei mutui subprime. Una bassissima disoccupazione (3,1% nel 2012) e un reddito medio pro capite che dal 2006 al 2012 è cresciuto da 33.034 dollari agli attuali 51.893. Per merito di che cosa? Ovviamente del fatto che la Banca del North Dakota è, unica in tutto il paese, completamente di proprietà statale. E che quindi rimane fuori dal sistema della Federal Reserve. È vero che la Banca è di proprietà statale al 100% ma non è vero che è fuori dal sistema della Federal Reserve, visto che fa parte del nono distretto, quello della Federal Reserve di Minneapolis. E gran parte del boom economico che sta attraversando lo stato è merito dell’incremento dell’estrazione petrolifera, visto che il North Dakota è diventato il secondo stato maggior produttore di petrolio degli Stati Uniti. Con questo senza nulla togliere al buon funzionamento della banca, che funge sia da banca centrale che da banca commerciale. Banca Centrale di Siria. Per i signoraggisti questa banca forse non esiste nemmeno, dato che indicano tra le principali ragioni di un attacco americano, l’assenza di una banca centrale “privata e dominata dai Rothschild”. Tralasciando la sparata antisemita, la banca centrale esiste eccome: fondata nel 1963, dal 2005 a oggi ha un governatore, Adib Mayaleh, che nei primi anni del suo mandato ha portato avanti di concerto con il governo di Assad un programma di liberalizzazione dell’economia e del sistema bancario tanto da ricevere il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Un po’ strano, per essere una banca che lotta contro un sistema mondiale di poteri forti. Solo recentemente, e a causa sia delle sanzioni che degli eventi bellici, che la Siria è tornata a un sistema economico pianificato. Quando nel 2002 il ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti propose all’allora governatore della Bce Wim Duisenberg di stampare banconote da 1 e 2 euro, quest’ultimo gli rispose indirettamente durante una conferenza stampa (per meglio comprendere, sappiate che i diritti di signoraggio per le banconote in euro vengono riscosse dalla Bce, quelli delle monete dalla Banca d’Italia): «Non abbiamo progetti di introdurre banconote da 1 o 2 euro, ma ne abbiamo sentito parlare. Naturalmente, ne abbiamo discusso. Stiamo valutando le implicazioni di introdurre tali banconote. In linea di principio non abbiamo niente contro questo progetto, ma stiamo valutando le implicazioni e spero che il signor Tremonti si renda conto che se tale banconota dovesse essere introdotta, egli perderebbe il diritto di signoraggio che si accompagna ad essa. Dunque se egli, come Ministro dell’Economia, ne sarebbe contento non lo so». Qualcuno già allora sarà stato contento che un ministro della Repubblica volesse rinunciare in modo così pacifico e contro così tanti poteri forti al signoraggio.

#crisi di #governo #costo 20 miliardi #iononpago

La crisi di governo ci costa più di 20 miliardi di euro Cento punti di spread in più fino a giugno mettono a rischio banche e i titoli del debito pubblico.
La crisi politica c’era già. Ma ha subito una brusca accelerazione con la scelta di Berlusconi di far dimettere i ministri del Popolo delle Libertà nel tentativo di evitare che si perfezioni la sanzione giudiziaria per i gravi reati economici (trasferimento di utili a società da lui possedute al 100% in paradisi fiscali) e non economici di cui è stato ritenuto colpevole in terzo grado. Cosa succede La crisi che si è aperta potrebbe produrre un brusco incremento dell’onere di un debito pubblico che ha ormai superato il 130 per cento del Pil. È probabile che nei prossimi giorni le agenzie di rating decidano un ulteriore downgrading che priverebbe i nostri titoli di stato della caratteristica di essere “investment grade”, con ciò obbligando molte istituzioni finanziarie, sia italiane che estere, a vendere lo stock in loro possesso. Inoltre i nostri titoli potrebbero non venire più accettati come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle nostre banche, come già è accaduto nei giorni scorsi a Londra. Cercare una difesa nel programma Omt della Banca centrale europea potrebbe essere difficile: tale programma richiede infatti una vigilanza dell’Europa. Questa procedura, prevista dall’Omt, non è stata ancora testata ed è piena di incognite. Richiede impegni che un governo dimissionario difficilmente potrebbe assumere. Ricordiamo che da qui a giugno (data di presumibile chiusura della crisi politica dopo nuove elezioni) ci sono circa 240 miliardi di aste di titoli di stato. Se il rendimento dei titoli aumentasse di 100 punti da qui ad allora avremmo un aggravio dei costi per il servizio del debito di circa 2,4 miliardi, come la seconda rata dell’Imu. A regime il costo sarebbe di più di 20 miliardi, vanificando più di metà delle manovre fatte dal 2011 per fronteggiare la crisi del debito.